La Bolivia mi accoglie in salita. La frontiera è oltre l’arco di mattoni, oltre le persone ammassate lungo la strada, oltre la festa delle Vergine di Copacabana, oltre l’acqua che viene giù. I primi passi sono i più importanti e raccontano tutto su come andranno le cose; non ci sono le comodità del Cile, tantomeno la “turisticità” del Perù, molto è lasciato al caso. Prendo un pullman, avrà forse trent’anni, è già notte, fuori fa freddo e dentro si congela, a stento sento i piedi nelle scarpe. Il pullman sale su di una chiatta e gli assi scricchiolanti sotto il peso del mezzo. Dobbiamo attraversare lo stretto di Tiquina, l’acqua non è calma e la chiatta ondeggia bruscamente. Poi arrivi a 4000 m e scopri un’enorme cratere nella Cordigliera Real e la città degli Illimani si manifesta sotto di te con la sua povertà più diffusa e la musica delle discoteche che rimbomba a tutto volume per le strade. È notte tarda, domani mi aspettano quattordici ore di pullman fino a Santa Cruz e dal terzo piano dell’ostello dove alloggio, sempre in fondo al cratere, sembra che tutta la Bolivia – La Paz – ti avvolga in un abbraccio.
Trentasei sono state le ore di viaggio infine! Lassù sul tetto del mondo nella più oscura notte della vita sono bloccato in mezzo alla neve, obbligato dal tempo a confrontarti con i tuoi pensieri. Mezzo congelato, la Bolivia ti riporta fanciullo, mette a nudo tutta la tua fragilità; i piedi non ci sono più, il corpo è freddo e la testa inizia a fare scherzi. Ritorna alla mente l’ospedale, molti anni fa, i familiari tutti in silenzio e tu sai cosa hanno ipotizzato i medici, ti lasci andare alle lacrime. Sarà stata la magia dell’Altiplano, lassù, sopra i 4500 m sei più vicino al cielo che alla terra, le ingerenze materiali svaniscono, rimembri, perdoni, ami, fai pace con te stesso; lo zero ti riporta brevemente al tuo posto nel pullman ed al tuo compagno di viaggio che non si muove, nessuno si muove nel mezzo, nessuno parla, i respiri sono ridotti ad un sibilo. Hai paura dei tuoi passi. Cinquecento sono ancora i chilometri da compiere per arrivare a Santa Cruz.
Da Santa Cruz a Puerto Quijarro è il treno a condurmi. Il treno, vetusto ma affidabile, attraversa l’Amazzonia nel punto in cui i deserti centrali incontrano la pampa e all’orizzonte il sole taglia la terra; circa duecento anni fa in queste territori gli eserciti di Bolivia e Paraguay si combatterono nella sanguinosa guerra del Chaco. Il treno passa, suona e la gente esce fuori di casa per vederlo arrivare; si annuncia come farebbe una Sposa all’altare – tu tu ciuff ciuff ciuff tu tu – e tutta la città accorre in strada, alla piccola stazione di legno dipinto di bianco. Per gli abitanti è sempre come la prima volta. Il treno scende dall’Altiplano verso il Pantanal, ad attendermi la frontiera brasiliana ma è notte e la Bolivia mi chiama un’ultima volta, come se sapesse che il mio viaggio stesse per terminare; scende il gelo, l’aria diventa pungente e fuori si fa il ghiaccio. Questa è la sera che ti violenta e ti porta via nel buio, ti scuote fino a stordirti e lasciarti a terra tremante; anche le stelle non salgono in cielo per non stare a guardare quello che accade. La paura si nutre di te, ti mostra ciò che più temi, si fortifica, ti sfida a provarLe il contrario, ti beffeggia, ti umilia, ti porta allo stremo senza volerti uccidere. Lottare ed opporsi, benché umano e comprensibile, può essere completamente inutile perché conosce ogni tua mossa, ogni tuo pensiero e ti assale anche nell’unico spiraglio di gioia nascosta che hai nel petto, è una predatrice vorace e vuole soltanto te. Improvvisamente un timido sole spunta di fianco, sale l’alba, la luce interrompere questo strano gioco e non è da intendersi come liberazione perché i segni della lotta sul corpo e nella mente saranno ben visibili per anni e a chi domanderà rimarrà tempo per pensare.